Valentina Vipera

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EVS Volunteer in México

POST MOBILITY ARTICLE

La testimonianza sulla mia esperienza in Messico è una storia, un racconto, sono le vicende divertenti, per chi le legge, ma non sempre per chi come me e Tania le ha vissute, di due ragazze quasi trentenni che hanno svolto la loro esperienza di volontariato europeo in un paesino sperduto ed isolato tra le montagne del Chiapas, El Porvenir.

Il titolo originale della storia è “dos gueritas y una cabaña” (due bianche e una capanna), è stata scritta da me per salutare in un modo affettuoso e originale Tania la mia compagna di avventure messicane che ha condiviso con me lavoro, amicizie, casa e tempo libero di questa assurda parentesi della mia vita.

Siamo diventate da subito amiche, colleghe, esseri strani per gli abitanti del posto, abbiamo convissuto insieme ventiquattro ore su ventiquattro usandoci reciprocamente come valvola di sfogo per affrontare la vita quotidiana, che abituate ad una routine comune di due città europee come Roma e Barcellona, è stata condita di eventi paranormali e abnormi, sicuramente non  banali e quasi sempre divertentissimi.

Dos gueritas y una cabaña

C’erano una volta due guerite (bianche), con peli di pannocchia, occhi azzurri e un grande sorriso.

Venivano da due paesi diversi Spagna e Italia a differenza di quello che pensavano e che continueranno a pensare gli abitanti del Porvenir, non potevano essere sorelle né cugine non provenivano dalla stessa famiglia, parlavano due lingue differenti, il castigliano e l’italiano, che Tania padroneggiava molto bene perché, nonostante sia scontato saperlo come noi potremmo pensare il fatto che lo spagnolo fosse la sua madrelingua non era così scontato per gli abitanti del posto che la elogiavano spesso per la sua pronuncia perfetta e l’uso esatto della grammatica. La Spagna e l’Italia non si trovano negli Stati Uniti, anche se spesso venivano chiamate gringas (straniere degli Stati Uniti).

Tania Serna, psicologa, ventinove anni, donna di Aragona, sua città natale, viveva da molti anni a Barcellona, divisa tra molti lavori, un san bernardo e il suo padrone e la sua migliore amica Belen, che prima o poi sarebbe diventata amica anche di Camilla, migliore amica di Valentina Vipera, da quando era entrata nel circuito sanitario de el Porvenir aveva anche un altro nome, Valencia, trent’anni, laureata in Sviluppo e Cooperazione internazionale, per necessità da anni faceva la cameriera per mantenersi a Roma, divisa tra relazioni intermittenti, un appartamento condiviso e un giorno libero alla settimana.

Per aver rifiutato nelle loro bellissime città dei lavori sicuri e ben pagati, anche se non appaganti, il karma decise di punirle e mandarle in un paesino molto lontano, molto freddo, molto piovoso e soprattutto molto ma molto strano, dove quello che veniva percepito come normale dalla gente del posto ai loro occhi diveniva strano e insolito. Il nome della città era il Porvenir, nella cima della vetta della Sierra del Chiapas, Messico, abitato da 1800 persone, tantissime pecore, cani, galli, tacchini e mucche. Gira che ti rigira, gli abitanti erano quasi tutti della stessa famiglia, addirittura un quartiere veniva nominato el barrio Perez perché tutti erano imparentati, cugini, zii, nipoti e fratelli e quindi con lo stesso cognome, Perez.

Il nome della città non era casuale, tutto stava sempre per succedere ma poi si presentava sempre qualche imprevisto, tutto andava a rilento per i più disparati motivi, le persone, gli appuntamenti, le chiamate e così le bianche si resero subito conto che il senso del tempo, dello spazio e la logica in generale del piccolo paese erano molto diversi da quello a cui erano abituate.

Per esempio, non esisteva l’ora solare e quindi el Porvenir rimaneva un’ora indietro definendo il fenomeno l’ora locale e agli abitanti non importava se tutto il resto del pianeta aveva un’ora solare e una legale, trovavano inutile cambiare l’ora se poi sarebbe tornato tutto come prima dopo pochi mesi. 

Gli autobus e in generale i trasporti non avevano orari, né fermate stabilite bastava dire la parola “scendere” o fare un cenno del braccio dalla strada e dopo una curva, senza illuminazione con la nebbia l’autobus si fermava però se dopo un viaggio di tre quattro ore esprimevi il desiderio di andare al bagno o fumarti una sigaretta iniziavano le pressioni dell’autista “ veloci veloci, stiamo per partire” perché l’autobus doveva essere scattante, fare più corse possibili al giorno e soprattutto pieno, un minimo di tre persone in ogni sedile e la stessa logica valeva per i taxi, almeno otto persone.

Lo stesso per gli orari dei famosi piccoli alimentari della città “sto aperto tutto il giorno”, e se andavi ad un qualsiasi orario ovviamente lo trovavi chiuso, “passa alle dieci del mattino” e anche in quel caso lo trovavi chiuso, la confusione riguardava anche il nome, tutti i negozi avevano lo stesso “tre fratelli, tre tempi…” e quasi tutti vendevano le stesse cose però con una logica differente a quella europea: la ricarica del telefono la dovevi fare in farmacia così come comprare le sigarette, nel macellaio vendevano polli e biglietti per raggiungere Città del Messico. Se i negozi non si potevano identificare dai nomi ancora più difficile diventava seguire le indicazioni per arrivarci, tutto è vicino, all’angolo, nella strada accanto, nell’altra strada, destra e sinistra erano parole non usate nel Porvenir.

Era la punizione del karma, ma presto le bianche si abituarono al nuovo linguaggio e  scoprirono nel nuovo codice comunicativo anche dei vantaggi, la lentezza e l’abbandono di ritmi fretici gli permettevano di riscoprire la bellezza di perdersi in chiacchiere, di sfruttare i momenti morti e di assaporare le pause imposte dai ritardi, imparono il modo dagli abitanti del posto di vivere le attese, le incomprensioni e gli imprevisti quasi all’ordine del giorno, con solarità senza impazienza e frustrazione, un meccanismo che le avrebbe aiutate molto a non lasciarsi trascinare dallo sconforto, come sarebbe successo a qualsiasi europeo che mal si adegua ai cambi di programma.

Quando arrivarono, le due bianche, si resero conto dal primo momento che il colore della loro pelle dei loro occhi e dei loro capelli le avrebbe messe in grande difficoltà. Era sempre il castigo del karma essere di aspetto “normale” in Europa e in quasi tutto il resto del mondo, ma dal momento in cui varcarono la soglia del Porvenir, si accorsero di apparire stranissime, pappagalli esotici dalle fattezze starane, quasi delle creature fantastiche. Perennemente osservate, invitate a pranzo e a cena a casa di sconosciuti, salutate dal cantante dal palco della piazza della città alla festa del paese, assistirono persino alla festa per l’indipendenza del Messico dal balcone della presidenza. Venivano fermate per strada e riconosciute anche in altre città limitrofe, fotografate da tutti, arrivarono a ballare danze regionali all’inaugurazione di una fondazione locale, con tanto di gonne e camicette tipiche.

Anche se un po’ stancante  alla fine trovavarono il bello di essere trattate come delle star del cinema, a chi non sarebbe piaciuto.

E nella vita delle attrici famose nulla deve essere banale, la routine quotidiana deve essere sempre condita da un po’ di pepe figuriamoci i viaggi e le escursioni.

Quando andavano in esplorazione di grotte, cascate e bellezze naturali del Chiapas non mancava mai un’avventura: la macchina si fermava e visto che non c’era campo era impossibile chiamare i soccorsi, si perdevano le chiavi della macchina o meglio si chiudevano le chiavi dentro la macchina senza possibilità di recuperarle, ovviamente sotto la pioggia o una tormenta.

Anche nella quotidianità non c’era la maniera di annoiarsi, stavi camminando serenamente per strada e un uomo ubriaco ti puntava una pistola, ma per scherzo, per fare il gradasso, oppure in una tranquilla sera come ce ne erano state tante altre, arrivava un terremoto di 8,2 gradi della scala richter che ti faceva ballare e pensare di non raccontarla, a volte andava via la corrente, a volte l’acqua a volte il gas o tutto insieme, potevi stare sotto la doccia con i capelli insaponati e ad un certo punto finiva l’acqua, veniva la tormenta o il vento o andava via la connessione ad internet, alcuni paesini non avevano proprio la copertura di rete, uno dei primi giorni un fulmine uccise tre persone, era molto facile insomma ipotizzare maniere di non uscirne vive da questa imprevedibile avventura, come guidavano, le pulci, i machete, o più banalmente attraversando la strada di casa per andare in città visto che si trattava di un marciapiede a ridosso del fiume, gli uragani annunciati, il vulcano non troppo distante e molto altro.

Per fortuna avevano il loro rifugio, la loro casa bellissima e sicura, definirla una casa è azzardato, una capanna, chiamata anche capanna del palo, per via di una conzone “il cavallo del palo”,  grazie a cui tutto diventava del palo, il cavallo, il caffè, la sigaretta, e si cantava tutto il giorno.

La capanna rappresentava un esempio di architettura di massima sicurezza, dove la natura si incontrava con il lavoro umano, di fatti tutti gli elementi della terra si potevano assaporare nella capanna: il vento, il fumo del fuoco, l’umidità, cascate naturali, fughe di gas, rumori strani. Tutto era montato male, i mobili erano storti, le porte a volte cadevano, la tenda della doccia non copriva i sanitari e si bagnava tutto, gli innumerevoli buchi nelle pareti delle stanze, da un lato utilissimi per una comunicazione veloce. Il mancato isolamento della capanna ne faceva un ottimo centro di spionaggio all’interno dell’hotel in cui si trovava, le avvisava di tutto quello che succedeva nel paese. Stava arrivando il panettiere con il suo furgoncino, e gridava “panaderia alvinnnn”, e di corsa in strada per comprare il pane e i biscotti, oppure “acqua” o “gas” e tutti gli annunci venivano sempre accompagnate da un’allegra musichetta. I giornali non esistevano nel Porvenir, le notizie passavano tutte per il megafono che si trovava nella piazza, spesso erano aggiornamenti non proprio felici, la morte di qualche abitante, la chiusura delle scuole, l’arrivo delle piogge incessanti. Anche il giovane Rusman a volte contrbuiva alla colonna sonora giornaliera del Porvenir, cantando rap dalla sua stanza all’ultimo piano con un sistema di casse super potente, un concerto live per tutti gli abitanti. 

Se si trattasse di una fiaba normale adesso dovrebbe esserci il colpo di scena, dovrebbe succedere qualcosa che stravolga i fatti e la routine, ma la punizione del karma era proprio questa: vivere una vita agli occhi delle bianche assurda ma normale per gli abitanti del posto, dove domani non era domani e “un attimo” poteva raggiungere dimensioni temporali lunghissime. Se la mattina c’era il sole non era un evento straordinario se dopo un’ ora ci si trovava nel bel mezzo di un temporale. Dove se eri persa nei tuoi pensieri ti chiedevano se qualcosa non andasse, perché fossi triste, cosa ti turbasse, se ti mancasse la famiglia e il tuo paese. Se anche ti trasformavi in Sherlok Homes raramente riuscivi a trovare delle risposte esatte o univoche o a volte addiritture credibili, per esempio chiedendo al mercato quanto costasse qualcosa sicuramente la risposta ti veniva data dopo una telefonata fatta alla vera addetta alla vendita che non era mai presente nel negozio, vedendo una canna di bamboo al mercato e esclamando “bamboo” ti rispondevano che si trattava di una carota, lo stesso per le pere che invece si scoprivano mele.

Per questo le bianche si facevano forza a vocenda perché a volte non ci capivano nulla e si sentivano sole e strane.

Tania quasi da subito aveva assunto il ruolo del principe della capanna, la donna drago, armata di legna e di una piccola ascia conosceva bene la struttura del camino e presto diventò un’esperta di come seccare la legna, riusciva a spostare i venti interni per evitare il fumo che presto o tardi le avrebbe comunque visitate generando una fitta nebbia affumicante.

Le due si sedevano sempre su due cuscini, al lato del camino, bevendo un caffè che chiamavano acqua di calzini mente facevano fuoco al fuoco, soffiando in continuazione visto che l’umidità della zona lo faceva spegnere con grande facilità, parlavano di come era andata la giornata, spiando dalla finestra i movimenti dell’hotel in cui si trovava la capanna alla ricerca di un gossip, cercavano di fare il punto sugli avanzamenti del loro progetto: la costruzione di uno spazio sociale per i giovani, ipotizzavano finanziamenti e strade percorrebili per coinvolgere il più possibile i ragazzi del posto. E poi iniziavano a pensare alla cena, alle ricette che le mancavano di Italia e Spagna ma poi convenivano sul fatto che la pannocchia alla brace aveva il suo perché e che l’avrebbero sicuramente rimpianta come i fagioli neri e le tortillas, come avrebbero rimpianto la bellezza di andare al mercato il giovedì mattina sperando di trovare quel pane dolce che avevano comprato l’ultima volta o di non arrivare troppo tardi per trovare ancora la legna piena di resina per accendere il fuoco. Erano diventate delle esperte dei prodotti locali, riconoscevano le vere tortillas di mais, il pane di banana che faceva solo la signora dell’angolo e si accorgevano se quel giorno l’aveva cucinato la figlia, dopo la prima settimana non si facevano più ingannare sul prezzo dei prodotti e se avevano dubbi facevano delle simulazioni con i loro amici del posto per testare il grado di veridicità dell’informazione e del prezzo. Avevano stretto alla fine buoni rapporti con tutti, dai venditori dei negozi alle venditrici del mercato, nessuno le fregava più e era sempre bello chiacchierare con loro assecondando e rispondendo alle loro curiosità sulla loro provenienza.

Quando si accorsero di avere un ospite nella capanna, un simpatico topolino, parlarono chiaro con lui, gli concessero ventiquattro ore di tempo per togliere il disturbo e dopo aver mangiato solo la metà di un cioccolatino nonostante la dispensa piena, accettò il consiglio e se en andò.

Insomma in tutte le situazioni il dialogo era fondamentale e loro iniziavano a capire e a farsi capire non solo dalle persone ma anche dagli animali .

Piano piano impararono nell’isolamento della montagna a trovare strumenti e scappatoglie affinché quello che all’inizio gli era sembrato tanto strano, in realtà iniziasse ad essere normale, quindi non era strano ma solo diverso, e non era peggio solo differente, non era insuperabile ma ci si doveva adattare a questo nuovo mondo. E alcune novità a cui non erano abituate nelle loro città, da oggi sempre saranno un valore aggiunto da portarsi dientro, per primo la musica, il reggaton che Valentina rockettara con tendenze metal, finiva per ballare a tutte le feste, e che adesso canta sotto la doccia, la bellezza di danzare in ogni occasione di festa e non, per divertirsi e socializzare e  non mangiare o parlare di cibo come si faceva in Italia o in Spagna per passare il tempo. Il romanticismo e anche un po’ la pesantezza della banda messicana da cui provavano a tracciare un profilo dell’uomo medio messicano anche se poi alla fine dalle canzoni emergeva che non si erano capiti neanche loro e che la risposta la trovano sempre, ahime, nell’alcol, il che giustificava i tanti casi di ubriachezza per le strade del Porvenir.

Sfruttare la meravigliosa natura e fare un po’ di sano sport seppure all’inizio non era stato facile a tanti metri di altezza. La location era il fantastico campo sportivo di plastica, circondate dalle pecore che invece pascolavano felici. Con loro portavano il piccolo nino, la mascotte delle bianche, un cane perennemente legato alla catena, nella sua precaria casetta di legno era di proprietà dell’hotel dove vivevano. Con il suo dolce musetto le aveva conquistate da subito e così le seguiva tutte le mattine, alla fine aveva anche imparato a stare senza guinzaglio e quando andavono al mercato senza di lui tutti gli domandavano dove lo avessero lasciato.

E ancora altri diversivi per passare le giornate quasi sempre piovose o nuvolose quindi partitoni a genga, le carte e soprattutto i film, tutte attività che si sposavano benissimo con il camino acceso. I film soprattutto horror anche se a volte si domandavano se non gli bastasse vivere nel Porvenir. I corsi di cucina nell’alberghiero della città, giocare a pallavolo, i compleanni festeggiati senza luci e a lume di candela con torte arraggiante fatte di plum cake o biscotti, andare tutti i mercoledì a El Canadà, che non è il paese ma una piccola frazione senza neanche la rete telefonica, il giovedì al mercato e soprattutto i viaggi, il Guatemala, le tre volte a San Cristobal de las Casas, i cambi di pressione di altezza e di clima, le birrette nel balconcino di Ruth e Ale a Motozintla immaginando di vedere la luce delle stelle, mentre si trattava del riflesso delle luci di qualche casa della montagna di fronte, la natura bella, incontaminata e invincibile, le risate di cuore, le tante domande e alla fine l’unica risposta che si potevano dare “pechè continuiamo ancora a chiederci le cose”?

Nonostante le difficoltà iniziali e lo scontro culturale, come tutte le occasioni di viaggio e di scambio la mia esperienza in Messico mi ha cambiato la vita. perchè ho scoperto anzi conosciuto tanto. Ho conosciuto Tania protagonista insieme a me di questa storia, e grazie alla sua genuinità abbiamo creato un rapporto speciale come sanno essere speciali solo le relazioni che si costruiscono in contesti del genere. Ho conosciuto meglio me stessa, le mie debolezze, i miei angoli duri, le mie rigidità e i lati belli che, nella routine quotidiana a Roma, dimenticavo di possedere: un grande spirito di adattamento, una bambina che ancora si diverte a giocare e a stupirsi della semplicità, la grande curiosità e l’irrefrenabile desiderio di scoprire e vivere cose diverse. Ho conosciuto un’altra cultura, all’inizio incomprensibile e stressante difficile da digerire, nei ritardi, nelle lentezze o semplicemente nel vivere alla giornata senza programmazione, ma poi avvolgente e colorata, disponibile e solare, accogliente e calorosa seppure a 2800 metri dal livello del mare.

Ho conosciuto il grande potere della musica e del ballo inseriti in tutti i momenti della giornata e mi sono accorta di quanta allegria ed energia ti possano infondere.

Ho conosciuto persone forti e caparbie che non si lasciano abbattare da un clima quasi sempre ostile, da una città che offre poco o addirittura nulla, ho conosciuto la semplicità e la bellezza di giocare con la palla, di guardare le nuvole in faccia, di tirare con la fionda i sassi e prendere la mira, di raccogliere le pannocchie, ho conosciuto una natura a volte avversa ma meravigliosa, che mi ha fatta sentire piccola piccola e sicuramente meno eurocentrica. Ho conosciuto anche la fortuna di essere eurocentrica, di aver avuto tante possibilità nella vita solo per il fatto di essere nata in un Paese che offre delle opportinità e che ti da l’occasione di disegnare il tuo cammino.

Ho conosciuto dei giovani difficili da acchiappare, difficili da legare alla causa, perché presi dai mille imprevisti e da una routine di chi sicuramente non possiede le nostre comodità, non ha la lavatrice, non ha i riscaldamenti, lava le stoviglie nel pozzo fuori casa, e quindi costruire uno spazio sociale giovanile diventa il superfluo, qualcosa in più. Però abbiamo conosciuto giovani che quando erano presenti, non volevano lasciarci andare a casa e inventavano scuse per farci rimanere qualche minuto in più, anche solo per scambiare un’altra chiacchiera, per fare un’altra domanda per conoscerci meglio. Ho conosciuto la possibilità di analizzare lucidamente il contesto e limitare le aspettative senza viverla come una sconfitta, godersi lo scambio al di là della concretezza e dell’aspettativa di raggiungere grandi risultati, ho imparato che a volte è necessario accontentarsi di accendere anche una piccola miccia e di dargli gli strumenti per continuare ad ardere da sola piuttosto che volere tutto e subito come ero abituata.

Ho conosciuto la grinta e la tenacia che possono nascere da un lavoro di squadra vero, dove si uniscono i punti di vista e si costruisce una linea di azione collegata ad un obiettivo comune, ho conosciuto l’importanza del dialogo e delle relazioni, la necessità della reciprocità e della condivisione come traguardo e non solo come strumento per arrivare alla meta.

Ho conosciuto la mia diversità e capito cosa vuol dire essere straniera, avere tutti gli sguardi addosso per il colore della pelle e dei capelli.

Ho conosciuto la frustrazione e la rabbia di non riuscere a farmi capire, di faticare ad esprimere concetti chiari nella mia testa, ma impossibili da tradurre con le parole prima di imparare lo spagnolo.

Ho conosciuto una piccola città nella cima della Sierra del Chiapas che porterò nei miei ricordi, per sempre consapevole di aver fatto un’esperienza unica e irripetibile sicuramente materiale adatto per scrivere una favola come quella delle “Dos gueritas y una cabaña ”.

Valentina Vipera

PRE-DEPARTURE ARTICLE

Today is the last day in Rome. Tomorrow I’ll fly to Mexico to start my EVS experience. I really don’t know how I feel and what are my expectations, I’m just afraid right now. It seems like to be in a dream until yesterday and now I can’t realize that I’m really leaving so soon. One week ago I felt good and I was very excited to be a part of this project, and now that will become a reality I feel very unprepared. If I won’t learn spanish? If I won’t able to give something good to my colleagues? If I won’t be comfortable with the situation? etc etc etc.

Rationally I know that are normal fears when you are going to live a new experience, So I breathe slowly and I try to convince myself that it will be a great experience, which probably will change me better.